domenica 22 marzo 2015

LETTERA A UNO CHE NON VISSE COME VOLEVA - EUNICE ODIO

Direi che oggi, Giornata Internazionale della poesia, è la giornata ideale per inserire un nuovo autore e quasi inedito in italia con una poesia tratta da COME LE ROSE DISORDINANDO L’ARIA” un volume che raccoglie una ampia selezione di poesie, curato e tradotto da Tomaso Pieragnolo e Rosa Gallitelli, in uscita nel prossimo aprile per la Casa Editrice Passigli.
Dalla quarta di copertina:
"La poesia di Eunice Odio è stata oggetto di una grande riscoperta negli ultimi anni; una poesia che certamente si avvicina alle esperienze del surrealismo, introdotto in America Latina in particolare dal poeta cileno Vicente Huidobro (e che peraltro arrivò a influenzare anche il giovane Pablo Neruda), ma che qui non vuole mai allontanarsi da una radice profondamente concreta, fisica, corporea. [ ] Ma l’originalità dell’opera poetica di questa scrittrice appare oggi ancora più netta ed è un  tutt’uno con il suo spirito indomito e indipendente. [ ] per capire ancora più a fondo la poesia di Eunice Odio è necessario comprendere la solitudine che sempre accompagnò la sua vita, un senso di perdita costante che la portava a celebrare con lucidità profonda ogni aspetto dell’esistenza come ricerca estenuante dell’amore totale e terreno, come dono naturale ed unico consegnato interamente in ogni gesto e parola.”
Sono sicura che per me sarà una gradita scoperta, una collezione di figure e sensazioni forti come già la poesia qui presentata ci propone.






Yolanda Eunice Odio Infante nasce a San José (Costa Rica) da Don Aniceto Odio Escalante e doña Graciela Infante Álvarez un 9 di Ottobre. Curiosamente, ma probabilmente per colpa della stessa Eunice che rimuove l'anno dalla sua data di nascita, per molto tempo viene creduto essere il 1922. Successivamente la studiosa Alicia Miranda Hevia lo rettifica, documenti alla mano, nel 1919. 
Inizia a studiare presso la scuola Delia U. de Guevara e il Collegio superiore per giovani signorine, completando poi gli studi con vaste letture, in particolare poesie moderne. A 16 anni ha una relazione con il poeta Roberto Brenes Mesén. Si sposa con l'Avvocato Enrique Coto Conde ma il matrimonio fallisce dopo solo due anni e messo, ma le permette di accedere alla vasta biblioteca della famiglia del marito.
Viaggia molto, Nicaragua, El Salvador, Honduras, Guatemala, Cuba e Stati Uniti e rientra nel paese mei primi anni quaranta. Le sue poesie sono lette alla radio con lo pseudonimo di Catherine Mariel e pubblicate sui periodici La Tribuna e Mujer y Hogar. Nel 1947 partecipa e vince il concorso centroamericano di poesia con la raccolta inedita "Gli elementi terrestri" che verrà pubblicato un anno dopo, si reca in Guatemala per ritirare il premio e dare a lezioni e conferenze ma decide di restare là, ne acquisisce la nazionalità e lavora presso il Ministero dell'Istruzione . Nel 1955, problemi personali la costringono a stabilirsi in Messico, dove restera quasi ininterrottamente fino alla sua morte.
Nel 1956 subisce due lutti: di suo padre e della sua amica narratrice e saggista Yolanda Oreamuno che assiste nella sua infermità e che muore tra le sue braccia.
L'anno successivo invia "Transito di fuoco" al concorso di cultura di San Salvador. Gli organizzatori non ricevono il plico in tempo e resta fuori concorso però il merito del suo lavoro è innegabile e le viene concesso un premio equivalente alla metà di quanto è riservato al secondo classificato oltre alla pubblicazione. Ancora oggi è considerato il suo libro migliore e uno dei più grandi successi della poesia centroamericana del XX Secolo.
Nel 1962 ottiene la cittadinanza Messicana; lavora nel giornalismo e come traduttrice. Pubblica diversi articoli contro il comunismo e Fidel Castro che le valgono l'inimicizia della intellighenzia di sinistra messicana e conseguenti ostacoli nel lavoro. Negli ultimi anni la sua vita è sostenuta dall'alcol e da una rabbia che la rende insopportabile, tanto che nelle note del suo libro postumo si parla di lei come una donna passionale, piena di ansia dolorosa, aggressiva, viscerale e strana.
Muore a Città del Messico in assoluta solitudine e in una data incerta; il suo corpo viene ritrovato nella vasca da bagno dieci giorni dopo il decesso e c'è anche un errore di trascrizione del mese, da marzo a maggio.
Ci sono anche pareri discordi anche sulle presunte cause della morte di Eunice: il suicidio da veleno, incidente domestico (slittamento nella vasca), congestione alcolica, congestione viscerale, fino all'omicidio.
Comunemente la data in cui viene ricordata è quella del 23 marzo 1974.










LETTERA A UNO CHE NON VISSE COME VOLEVA

Fratello, amico mio,
è per te questa carta che si è fatta aspettare
come i germogli del petto nell’estate.
Ti scrivo che ho pensato molto a te
e ti vedo adesso con il tuo collo inchiodato
che fugge dal torace e dalle mani:
con questo tuo modo di tenere gli zigomi
fuori di te,
più lontano dalla tua pelle che dal tuo nome.
Come credo ti dissi, giungerò d’improvviso
un giorno in cui nessuno viaggia,
un giorno ineguale che accorrerà ai miei occhi
quando io lo chiamo
e si sfilaccerà nel mio profilo
cresciuto di grappoli e di greggi.

Però adesso, precisamente adesso,
che ho di fronte una madre di Picasso
della epoca azzurra,
una madre inondata dei suoi materni echi
e dei suoi stessi verbi circondata,
dalle cui labbra sbocca un bimbo
intermittente e minimo,
precisamente adesso – dico –
mi viene la tua casa nel ricordo
e so, dall’odore e dalla passione e dal tatto,
che cosa mi dirai quando ritorni:
del colpo nella quiete del bambino
e del grembiule con iniziali,
all’ordine del giorno negli accordi familiari.

«Povero piccolo, cascò dall’arancio
la scorsa settimana, tutto intero cascò,
e non gli rimase altro
che una parte minima di labbro,
per piangere a dirotto per le ginocchia
e il vestito e la caduta.»
E la ragazza altissima con palpebre d’uva,
dove discorrono nella sera le rondini,
e la zia con pettinini nella chioma odorosa
e le braccia dolcissime.

E il pane in controluce di velluto
sui declivi dentro cesti abbagliati,
il pane udito sempre,
nella forma mutevole di braccia,
il molle pane
fratello primogenito del grano,
il cui fianco si ruppe in pianura.
Il pane, fratello,
il pane,
pane della tua casa
e della mia
e del fratello eterno che ci segue.
Il pane che giustifica la mitezza in pace,
quello che ci fa guardare verso l’alto la terra,
quello del lievito che trascorre in un abbraccio.
Il pane dell’uomo che riposa
col mio collo nella sua anima
ed il mio ventre in suo figlio;
il tuo,
il mio,
quello di tutti.
È per lui che,
quando nelle vendemmie imbrunisce,
tutti domandano se arrivò alla bocca,
o se è il suo odore di abituato albore
che ritorna alla bocca,
che prima del pane incarna
ed è il verbo e la voce di colomba.

Ti ho raccontato del pane,
fratello,
e della casa
dove il lievito cresce nella notte
e lo si sente sollevare
l’edificio del sangue;
dove il lievito
organizza il silenzio che lo abita,
aggruppa l’aria
e fonda l’acqua che lo fanno
profonda materia radunata e pura.

Ho poco ormai da raccontarti,
se non fosse che per svelarti tutto questo
ho lasciato momentaneamente tra le mie cose:
libri, quadri, vesti,
il mio cuore in un ramo,
e sono adesso così vicina alla sua assenza
che quasi ne ignoro la causa;
tanto assoggettata a lui che devo già tornare,
senza attardarmi,
per aiutarlo a realizzare il suo compito
di palpitare a tempo e di bastarmi.



CARTA A UNO QUE NO VIVIÓ COMO QUISO

Hermano, amigo mío,
para ti esta carta que se hace esperar
como los renuevos del pecho en verano.
Te cuento que he pensado mucho en ti
y te veo ahora con tu cuello enclavado
huyéndole al torso y a las manos:
con esa tu manera de tener los pómulos
fuera de ti,
más lejos de tu piel que de tu nombre.
Como creo que te dije, voy a llegar de pronto
un día en que no viaje nadie,
un día desigual que acudirá a mis ojos
cuando yo lo llame
y desfilará por mi perfil
crecido de racimos y rebaños.

Pero ahora, precisamente ahora,
teniendo frente a mí una madre de Picasso
de la época azul,
una madre inundada de sus maternos ecos
y de sus propios verbos circundada,
por cuyos labios desemboca un niño
entrecortado y mínimo,
precisamente ahora – digo –
me aviene tu casa al recuerdo
y sé, por el olor y la pasión y el tacto,
lo que me va a decir cuando regrese:
lo del palote en la quietud del niño
y lo del delantal con iniciales,
a la orden del día en los acuerdos familiares.

«Pobre pequeño, se cayó del naranjo
la semana pasada, todo entero cayó,
y no le quedó arriba
más que una parte mínima de labio,
para llorar muy alto por la rodilla
y el vestido y la caída.»
Y la muchacha altísima con párpados de uva,
donde discurren por la tarde las golondrinas,
y la tía con peinetas en el pelo oloroso
y los brazos dulcísimos.

Y el pan a contraluz de terciopelo
a cuestas en los cestos deslumbrados,
el pan oído siempre,
en la forma mudable de los brazos,
el tierno pan
hermano primogénito del trigo,
cuya cadera se quebró en el llano.
El pan, hermano,
el pan,
pan de tu casa
y de la mía
y del hermano eterno que nos sigue.
El pan que justifica la blandura en paz,
el que hace que miremos para arriba la tierra,
el de la levadura trascurrida en un abrazo.
El pan del hombre que reposa
con mi cuello en su alma
y con mi vientre en su hijo;
el tuyo,
el mío,
el de todos.
Por el que,
cuando en las vendimias anochece,
todos preguntan si llegó a la boca,
o si es su olor de acostumbrada albura
que regresa a la boca,
que antes que el pan encarna
y es el verbo y la voz de la paloma.

Te he hablado del pan,
hermano,
y de tu casa
en que la levadura crece por la noche
y se la siente levantando
el edificio de la sangre;
en que la levadura
organiza el silencio que la habita,
agrupa el aire
y funda el agua que la hagan
honda materia congregada y pura.

Poco tengo ya que decirte,
si no es que para hablarte de todo esto
he dejado momentáneamente entre mis cosas:
libros, cuadros, trajes,
mi corazón en rama,
y estoy ahora tan cerca de su ausencia
que hasta ignoro su causa;
tan por debajo de él que he de regresar ya,
sin tardarme,
para ayudarle a realizar su oficio
de palpitar a tiempo y alcanzarme.























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