Un racconto di Saverio Cristiani sull'olocausto.
SILENZIO
Shlomo non è ancora tornato.
Poi venne la morte.
Venne un giorno con l’aspetto severo di un ufficiale delle SS che bussando alla mia porta con voce tagliente mi disse: “seguimi Shlomo, la Germania ha bisogno di te”. Nei suoi occhi, celata dal ghiaccio dell’iride, una promessa ch’era già una sentenza.
E io, che di vita da offrire ne avevo una sola, senza riuscire a spiegarmi il perché, sapevo che sarebbe stata quella l’ultima giornata di sole che avrei osservato.
Sul vagone, con gli altri volti imbalsamati e vinti a contorno, mi muovevo poco per non dare fastidio al vicino; furono giorni duri e insensati, col puzzo di piscio nel naso e la sete compagna di viaggio, a storpiarmi dalla mente il ricordo di ciò che avevo lasciato. Una terra di luce rovente, le rocce bianche a capofitto sul mare di Grecia ed il pane saporito di mia madre sulla tovaglia a fiori.
Era l’alba ad Auschwitz quando arrivammo. Un odore pesante nell’aria ci accolse come presagio, e le nostre file che si allungavano all’ingresso del campo sembravano immensi vermi moribondi. Raccoglievo i pensieri cercando di non tradire la mia paura; ostentavo sicurezza e quando una guardia mi osservò ridendo le mani tremanti mi strinsi il collo nel bavero simulando un freddo che in realtà non provavo.
Era quella la mia morte, l’avevo davanti senza riconoscerla, mascherata dall’agonia inconsapevole di mille altri come me, mille ogni giorno, ed ogni giorno altri mille ancora.
Da allora spogliai uomini e donne come fosse un perdono implorato e non un dovere imposto; alle vecchie davo le spalle perché il pudore mi fosse complice; con le altre, mentendo, ridevo più forte per farle affrettare alla porta già spalancata.
“Presto”, sempre più presto ci urlava il Kapò.
Poi, quando tutto era finito, come rami da potare nel punto più buio della notte tagliavo loro i capelli per farne memoria, le trecce da una parte, il resto dall’altra.
Era l’unica traccia a rimanere prima del forno, nascosta dal mio scalpiccio viscido tra i corpi ed i sorrisi diafani da estirpare come catena.
Là era sempre inverno, un eterno gennaio grigio di fumo troppo duro a finire.
Sino a che una Pasqua qualsiasi non arrivò qualcuno a liberarci il cielo dalle nubi; e con le divise ornate di stelle rosse che camminavano attonite tra le nostre magrezze, cercammo, ognuno di noi cercò, di trovare quel filo di voce che potesse almeno recitare un “grazie”.
A testa bassa però, pentiti forse d’essere sopravvissuti per poterne raccontare.
Era finita, per molti era finita; non per me.
Ciò che rimane di quel sogno che sogno non era, sopravvive alle notti e ai ricordi; con fatica, con rammarico e pena ma sopravvive.
Così in questo giorno di primavera che nasce voglio pensare come mi trovassi adesso in un sogno e scrivere di quand’ero vivo.
Perché io ero vivo come pianta, lo ero come animale o come onda; sollevavo il petto al respiro, aprivo gli occhi alla prima luce dell’alba che filtrava tra vetro e persiana, e terminavo il sogno con una stretta di mano alla notte ed una corsa affannosa al futuro.
Ero vivo con l’acqua fresca e ribelle tra le dita, e con una camicia profumata di cotone pulito da indossare prima che il giorno m’incontrasse per via.
Vivevo per strada, tra i ragazzi che andavano affollando la scuola, o nelle sere annoiate d’ottobre deserte d’anime e luce.
Si, io vivevo così, con la gente negli occhi, e un sorriso profondo nel cuore, felice d’essere e d’esserci senza far torto a nessuno. Se qualcuno mi avesse incontrato, in quelle mattine rapite, avrebbe riconosciuto in me ciò che non può finire, che non è giusto abbandonare. Ciò che non è altro che peccato il solo pensare di poter tacere: io ero vivo.
Poi.
Poi venne la morte.
«Per me - ha detto la Szymborska - la poesia nasce dal silenzio»
RispondiEliminati lascio una bellissima preghiera dei monaci carmelitani
RispondiEliminaSposta le tende, amico di Dio e amico mio...
calpesta l'erba,
attendi la notte che viene al tramontare del sole,
e sui tuoi passi alla luce dei lampioni
potrai intravedere l'ombra di un tu
fare compagnia alla tua solitudine...
.
Ascolta la voce del Silenzio,
Mistero dell'Eterno, tu che abiti
in un cuore diroccato...
.
Fa' in modo che l'altro entri nel tuo cuore
a tutte le ore e lasci tutto spalancato
e ti costringa a vivere con il cuore aperto,
che entri nella tua vita
e prenda di te quel che desidera,
vivrai in un perenne dialogo d'amore.
.
Il chiarore dell'aurora plachi
l'angoscia della tua disperazione
e le stelle cui ogni notte affidi
i tuoi sogni di luce, ritirandosi
discrete alla luce del giorno,
ti restituiranno la speranza del domani:
la certezza di poter essere "amore"
che sa farsi accanto.
.
(preghiera dei monaci carmelitani)