domenica, 23 maggio 2010
PALME - JUAN VICENTE PIQUERAS
Qualche tempo fa, Juan ha portato alla mia attenzione la parola "PALMA", svincolata dal contesto della poesia.
Mi è venuto in mente che PALME è anche il titolo di un suo libro e di una poesia lì ricompresa, così sono andata a rileggerla con una attenzione maggiore a quanto avessi fatto in precedenza ed adesso, a debita distanza dalla precedente sua inserita, la propongo.
E confesso un certo imbarazzo per la riflessione che ho fatto nel post precedente, a proposito della biografia dei nuovi autori e del fatto che agli amici non la inserisco mai, dal momento che con Juan non l'ho mai fatto, rimandandone la lettura al suo sito col solito link. Magari lo farò per il prossimo suo post.
Seguito o premessa ideale alla sua STIRPE DI ISOLE , con PALME Juan ci offre una visione interessante di esse.
Personalmente mi ha colpito la visione della necessità inevitabile della perdita dei rami in funzione della loro crescita, come pure la sua considerazione finale sulla sofferenza.
Trovo entrambi i concetti molto condivisibili.
Anche questa poesia è molto musicale, anche qui Juan ci avvolge, ci attira nella sua introspezione, la svolge davanti ai nostri occhi e direi che siamo noi, in questo caso, i "testimoni di un miracolo".
Personalmente mi ha colpito la visione della necessità inevitabile della perdita dei rami in funzione della loro crescita, come pure la sua considerazione finale sulla sofferenza.
Trovo entrambi i concetti molto condivisibili.
Anche questa poesia è molto musicale, anche qui Juan ci avvolge, ci attira nella sua introspezione, la svolge davanti ai nostri occhi e direi che siamo noi, in questo caso, i "testimoni di un miracolo".
PALME
Nasciamo dalla sete. Siamo palme
che crescono a forza di perdere
i propri rami. I tronchi sono ferite,
cicatrici rimarginate dal vento e dalla luce,
quando il tempo, quello che fa e quello che trascorre,
occupa il cuore e lo trasforma in nido
di perdite, ne erige la sua aspra colonna.
E per questo le palme sono allegre
come coloro che hanno saputo soffrire in solitudine
e ora si cullano nell'aria, spazzano nubi
e dalle loro chiome consegnano
inni alla luce, fonti di fuoco,
ventagli a dio, addio a tutto.
Tremano, testimoni di un miracolo
che conoscono soltanto loro.
Siamo come la sete delle palme
e ogni ferita aperta verso la luce
ci fa sempre più alti, più felici.
Perdite sono i nostri tronchi. È trono
il nostro dolore. Non è bello
soffrire ma bisogna aver sofferto
per sentire, come un intimo nido,
la meraviglia dei sopravissuti
che ringraziano l'aria, e poi scoppiano
per l'alta gioia in mezzo al deserto.
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