domenica 24 giugno 2012

Da Elegie Romane: XII - JOSIF BRODSKIJ


"Oh, poesia! I versi possono essere versi, ma possono non essere poesia. La poesia è un tale miscuglio di rivelazione, di penetrazione, in generale, è la comprensione delle cose ecc... I versi sono, semplicemente, il mezzo della poesia, ciò che si chiama mezzo di trasporto. E' come un treno, i treni, i vagoni ecc... E dove vi porteranno è la poesia. Ma possono non portarvi."

Questo è quello che Josif pensava dei suoi versi. Ed in particolare sulle sue Elegie Romane, nella stessa intervista, risponde così alla domanda:
"Che cosa ha provato quando è stato a Roma?"

"Secondo me, è tutto scritto in quei versi. Non ho assolutamente niente d'aggiungere. Andai a Roma e non era la prima volta, mi pare la quarta o la quinta volta. Alloggiai all'Accademia Americana a Roma. Ebbi una storia d'amore con una ragazza del posto. Il suo nome appare in un verso, ma è nascosto fra quei nomi classici. Questo è il lato obiettivo, il sottofondo fattuale di questo ciclo. Oltre a ciò, una volta ho letto Elegie Romane di Goethe. Esse erano scritte in esametro, senza rima, ma la situazione in cui si trovava Goethe a Roma era analoga, più precisamente, la mia situazione a Roma era analoga a quella di Goethe. Non avevo nessun'altra intenzione. Semplicemente, scrissi i versi su ciò che pensavo, che sentivo e, in quel momento, volevo mettere sulla carta. E questo per la parte che riguarda Roma. Ma come sempre quando si scrive su qualcosa, si aggiunge qualcosa della vita precedente o, se ci si riesce, dalla vita futura. Non ho decisamente niente da aggiungere a proposito di Elegie Romane."
(Conversazione tratta dal sito: http://www.russianecho.net)

Decisamente questi versi rappresentano proprio un mezzo di trasporto, o forse un atto di fede per chi non riesce ad interpretarli a fondo, ma ne  coglie l'essenzialità, l'apparente superficialità e ne intravede la bellezza.
Credo che Josif si rivolga al tempo; molte cose me lo fanno credere, compresa la tematica complessiva delle sue poesie, ma col tempo a chi allude? 
Qual'è la cosa invisibile che è esistita una sola volta sulla terra: la morte o piuttosto la nostalgia? Se così fosse, non ci troviamo di fronte ad un poeta che scrive solo sotto metafora, ma che piuttosto nasconde nei suoi versi contenuti filosofici, verità che si fanno assolute tra gli spazi delle parole. 
Un atto di fede, dicevo, credere che le forbici rappresentino un distacco, con la conseguente mancanza dell'altra, un atto di fede pensare che la mancanza sia invisibile e proprio perché mancanza, prima deve essere stata ed adesso essere dappertutto. Atto di fede, sostenere che quello che non si può dividere in due parti sia il cuore, la dracma d'oro una donna, la lunghezza della tenebra il tempo necessario per dimenticare - se possibile - un amore.





Nasce a Leningrado il 24 maggio 1940.  Ad appena quindici anni, compie il suo primo atto libero: si alza dalla sedia, e dopo aver osservato le facce insopportabili degli insegnanti e quelle di Stalin e Lenin, si incammina lentamente verso l'uscita, lasciandosi alle spalle gli sguardi perplessi dei suoi compagni. Suo padre Alexandr, era un ufficiale della Marina sovietica con la passione della fotografia, e la madre, Maria Volpert, era una donna di notevole bellezza e cultura. Il padre ben presto è costretto al congedo, per via delle sue origini ebraiche e Josif si adatterà ad ogni genere di lavoro (fresatore in una fabbrica di cannoni, assistente nell'obitorio di uno degli ospedali della città, cercatore di uranio nel territorio della Siberia, scalatore per necessità e passione sempre con il contatore geiger in mano, senza provviste, con scarsa attrezzatura) per aiutare la famiglia ad attraversare quel momento di difficoltà economica, nonostante vivessero in una modestissima casa di 40 metri quadri in tutto in Litejnyj prospekt n. 24. Però la madre lo incoraggia a studiare da autodidatta. Le sue prime poesie vengono lette in riunioni semi-clandestine che però lo fanno conoscere negli ambienti letterari della sua città e approdano sulle pagine della rivista Syntaksis e con l'apprezzamento pubblico di Anna Achmatova, inizia a frequentare i giovani intellettuali de “Il circolo di Pietroburgo”. Intanto sono in molti che accorrono alla lettura delle sua poesie e questo lo impone all'attenzione della polizia sovietica. Dopo i primi episodi di arresti e avvertimenti, viene attaccato dalla stampa di influenzare negativamente i giovani. Si arriva così a quel processo-farsa che lo ha visto imputato.

GIUDICE: Di che cosa si occupa?
BRODSKIJ: Scrivo poesia. Traduco. Suppongo…
GIUDICE: Niente “suppongo”. Si alzi dritto in piedi! Non si appoggi alla parete! Guardi la corte! Risponda alla corte correttamente! (A me): La smetta di prendere appunti immediatamente, o la dovrò espellere dalla sala! (A Brodskij): Ha un lavoro fisso?
BRODSKIJ: Pensavo che fosse un lavoro fisso.
GIUDICE: Risponda precisamente!
BRODSKIJ: Scrivevo poesia. E pensavo che fosse stata stampata. Suppongo…
GIUDICE: Non siamo interessati in quello che “suppone”. Risponda per quale ragione non ha lavorato.
BRODSKIJ: Ho lavorato. Ho scritto poesia.
[...]
GIUDICE: Per quanto tempo ha lavorato?
BRODSKIJ: Approssimativamente…
GIUDICE: Non siamo interessati all’approssimativamente!”
BRODSKIJ: Cinque anni.
GIUDICE: Dove ha lavorato?
BRODSKIJ: In una fabbrica. Con un gruppo geologico…
GIUDICE: Quanto tempo ha lavorato nella fabbrica?
BRODSKIJ :Un anno.
GIUDICE: Facendo che cosa?
BRODSKIJ: Ero fresatore.
[...]
GIUDICE: Ma in genere qual’è la sua specialità?
BRODSKIJ: Sono un poeta, un poeta-traduttore.
GIUDICE: E chi le ha detto che lei è un poeta? Chi l’ha incluso nell’ordine dei poeti?
BRODSKIJ: Nessuno. (Non sollecitato) E chi mi ha incluso nell’ordine della razza umana?
GIUDICE: Lo ha studiato?
BRODSKIJ: Che cosa?
GIUDICE: Essere un poeta? Non ha finito la scuola dove preparano… dove insegnano…
BRODSKIJ: Penso che non si può ottenere dalla scuola.
GIUDICE: Come allora?
BRODSKIJ: Penso che… (disorientato) venga da Dio…

"Allora lei è un parassita". Sentenziava il giudice, ed applicando il codice sovietico, lo condannava a cinque anni di lavori forzati (oltre a un periodo allucinante nel manicomio del carcere Le Croci, dove stabiliscono che è sano di mente e pronto ad affrontare la pena stabilita). Ma, si sa, non erano mai sotto accusa gli uomini, piuttosto la letteratura, l'inno a vivere la vita in libertà. Ma il resoconto stenografato del processo arriva in Occidente, suscitando così tanto clamore da spingere i dirigenti sovietici a tornare sulla propria decisione ed a revocare la condanna e rimettendo il poeta in libertà. Rientrato nella sua Pietroburgo, sopravvive grazie alla famiglia e agli amici (in particolare Anna Achmatova) e traduce poesie dall'inglese e dal polacco. Alla vigilia della firma del contratto per la sua prima pubblicazione di poesie, la situazione politica interna precipita e Josif finisce nella lista degli indesiderati: gli viene consigliato di richiedere un visto per Israele.        
Inizia così - era il 1972 - il suo esilio. Non rientrerà mai più in patria, anche quando il suo nome verrà riabilitato nel 1989, era Gorbacioviana. Parte il 4 di giugno con pochi effetti personali: un libro di John Donne, una macchina da scrivere, regalatagli del padre, e due bottiglie di liquore che consegnerà – fermandosi in Austria, prima di raggiungere gli Stati Uniti a Wystan Huge Auden: il primo intellettuale occidentale che vuole incontrare di persona, autore di una calda prefazione alle sue poesie tradotte in lingua inglese. Si stabilisce negli Stati Uniti, insegnando in varie università e trovando quella serenità che gli consente di raffinare la sua poetica. Stringe amicizia a dispetto del suo carattere chiuso, con poeti come Derek Walcott e Antony Hecht, diviene cittadino americano nel 1977, scrive in quella che è la sua nuova lingua. È però grazie al premio Nobel per la letteratura, arrivato nel 1987, che il suo nome diventa davvero noto in tutto il mondo, contribuendo ad aumentare sensibilmente le traduzioni delle sue opere in lingue straniere e i suoi viaggi all’estero.
Innamorato dell’Italia, (e dell’italiano, che definisce "la lingua prima della poesia") trascorre regolarmente le sue vacanze di fine anno a Venezia, città che finisce al centro (come anche Roma) di alcune tra le sue poesie e prose più riuscite. Quando si rende conto che i suoi problemi cardiaci, sono davvero seri e preoccupanti, esprime il desiderio di venire seppellito nella sua "personale forma del Paradiso": città di acqua e canali, come la natale Leningrado. Muore nella notte del 28 gennaio 1996 nella sua casa di Brooklyn, al n. 44 di Morton Street, uno dei due "nascondigli" (come lui diceva, l' altro era nella bella casa di campagna vicino al College in cui insegnava). Non risponde al telefono, così abbattono la porta e lo trovano senza vita nel letto. Stranamente la notizia è battuta per prima da una agenzia russa. Alle 3 del pomeriggio di domenica le televisioni e le radio americane, sono distratte dal "Superbowl" e parleranno della morte del poeta solo alcune ore dopo. Il medico Isadore Rosenfeld , che oltre ad essere un suo amico personale, l'ha curato per tanti anni, consigliandogli di cambiare radicalmente regime di vita ed affrontare un delicato intervento chirurgico, dirà: "L'ho abbandonato da un anno perché non voleva smettere di bere e di fumare" ma anche "Lo definirei un suicidio". Brodskij aveva 55 anni, e anche se soffriva di cuore, non aveva mai vissuto da ammalato. Aveva detto, scherzando, che il suo epitaffio avrebbe dovuto suonare così: "Lascia il suo gatto Mississippi e le sue poesie".






                                    XII

Chinati. Ti devo sussurrare all’orecchio qualcosa:
per tutto io sono grato, per un osso
di pollo come per lo stridio delle forbici che già un vuoto
ritagliano per me, perché quel vuoto è Tuo.
Non importa se è nero. E non importa
se in esso non c’è mano, e non c’è viso, né il suo ovale.
La cosa quanto più è invisibile, tanto più è certo
che sulla terra è esistita una volta,
e quindi tanto più essa è dovunque.
Sei stato il primo a cui è accaduto, vero?
E può tenersi a un chiodo solamente
ciò che in due parti uguali non si può dividere.
Io sono stato a Roma. Inondato di luce. Come
può soltanto sognare un frantume! Una dracma
d’oro è rimasta sopra la mia retina.
Basta per tutta la lunghezza della tenebra.


Trad.  Giovanni Buttafava


XII

Наклонись, я шепну Тебе на ухо что-то: я
благодарен за все; за куриный хрящик
и за стрекот ножниц, уже кроящих
мне пустоту, раз она -- Твоя.
Ничего, что черна. Ничего, что в ней
ни руки, ни лица, ни его овала.
Чем незримей вещь, тем оно верней,
что она когда-то существовала
на земле, и тем больше она -- везде.
Ты был первым, с кем это случилось, правда?
Только то и держится на гвозде,
что не делится без остатка на два.
Я был в Риме. Был залит светом. Так,
как только может мечтать обломок!
На сетчатке моей -- золотой пятак.
Хватит на всю длину потемок.



2 commenti:

  1. Bravissima Carla! Bellissimo commento ed introduzione. La poesia in sé non mi entusiasma, ma le traduzioni dal russo sono veramente molto complesse: ho letto alcune traduzioni in inglese, non di questa poesia, che differivano molto ( troppo) tra di loro. Si assomigliavano solo per la loro impoeticità!

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  2. Concordo sulla complessità della lingua russa. Impensabile tentare una qualche minima traduzione. Ma anche quello è un mondo che ha prodotto delle voci uniche, impossibile ignorarle.
    Grazie anche per le altre considerazioni del tuo commento.
    Carla

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