domenica 21 ottobre 2012

LO SAI: DEBBO RIPERDERTI - EUGENIO MONTALE

Poesia apparsa per la prima volta sulla «Gazzetta del popolo» il 5 dicembre 1934 ed ambientata in una Genova con cui ho un rapporto ambivalente di amore-odio. 
Ci sono stata più volte senza visitarla davvero e mi dispiace per aver sfiorato certi luoghi senza visitarli veramente (uno su tutti la casa di Cristoforo Colombo). Ma ho anche ricordi di giornate passate in treno per passare poche e irrinunciabili ore...di poesia (soli pochi mesi fa, Juan Gelman è stato ospite al Festival Internazionale della Poesia proprio a Genova e protagonista di un reading delle sue poesie alle 21,00)
Quando ho letto per la prima volta questa poesia, leggendo la parola Sottoripa mi sono venute a mente, appunto Genova e Caproni:

"...
Genova di Sottoripa.
Emporio. Sesso. Stipa.  

..."
(da Litania)

Ma la parte più sorprendente è l'incipit, dichiarativo come lo è in Pavese e come in Pavese trovo lo stesso sapore narrativo, lo stesso afflato.
E poichè il libro da cui è tratta la poesia esce in un momento di transito tra  la sua vita di Firenze ed il trasferimento a Milano, dove poi morirà, è possibile che abbia influenzato in maniera significativa Cesare e i poeti della scuola milanese prima, e quelli del resto del paese poi.


Molo Audace - Trieste - Fotografia di Paolo Carbonaio che ringrazio



LO SAI: DEBBO RIPERDERTI


Lo sai: debbo riperderti e non posso.
Come un tiro aggiustato mi sommuove
ogni opera, ogni grido e anche lo spiro
salino che straripa
dai moli e fa l’oscura primavera
di Sottoripa.

Paese di ferrame e alberature
a selva nella polvere del vespro.

Un ronzìo lungo viene dall’aperto,
strazia com’unghia ai vetri. Cerco il segno
smarrito, il pegno solo ch’ebbi in grazia
da te.
E l’inferno è certo.

da Le occasioni, mottetti





6 commenti:

  1. http://www.oocities.org/paris/leftbank/5739/riperderti.mp3

    Una mia rivisitazione:

    Da un motteto di Montale
    Ho estratto l' osso.

    Debbo riperderti e non posso.

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  2. oddio... accostare il verso lungo di un Pavese a Montale, è impresa ardita.
    Montale rimane lirico.
    Pavese pensa alla poesia-racconto in Lavorare stanca. Pensa a Melville, pensa di contrapporsi a tutto ciò che era la cultura del tempo, inventandosi un verso che partendo dall'endecasillabo si allunghi seguendo una sua ritmica quasi "celtica".
    Però mai dire mai...
    Io intanto ti ringrazio per questa perla che non conoscevo.
    Carlo

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    Risposte
    1. Ciao Carlo. Concordo con te sulla liricità di Montale. Il mio accostamento tra Eugenio e Cesare è non tanto sul conteggio delle sillabe del verso (11 del prmo, contro 14 del secondo, se non ho contato male) quanto al modo di esprimersi.
      Ascolta:

      Lo sai: debbo riperderti e non posso. (da LO SAI: DEBBO RIPERDERTI)

      Lo ripete anche l'aria che quel giorno non torna. (da RISVEGLIO)

      prova a pensare ad un verso intermedio che leghi questi due versi: non ti sembrano usciti dalla stessa penna? Hanno la stessa cadenza, lo stesso tono rassegnato.
      Certo, in Montale troviamo termini come "sommuove, spiro e ferrame", mentre in Pavese ogni parola ci appartiene. Forse i dodici anni anagrafici che li separano sono più di quello che sembrano essere o forse è stata la ricerca d'una propria forma espressiva ad allontanarli ancora di più.
      Linguaggio lirico contro linguaggio quotidiano: con gli anni saranno apprezzati più i versi di un Pavese, almeno fino a che questo linguaggio di oggi si evolverà ancora e termini come "imbeve, sbigottito e dissolte" saranno, a loro volta superati.
      Grazie per lo spunto riflessivo.

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