venerdì, 04 settembre 2009
NON NAVIGHIAMO SULLO STESSO MARE - OLAV H. HAUGE
E passiamo ad un'altra parte del mondo, ad un uomo semplice, con un lavoro semplice che ha prodotto altrettanto semplici versi.
Olav H. Hauge è nato il 18 agosto 1908 a Ulvik, un piccolo comune della Norvegia, all'interno del Hardangerfjord, dove è vissuto per tutta la sua vita e dove è morto il 23 maggio 1994.. La natura di questo fiordo, molto profondo e ramificato, gioca un ruolo estremamente importante non solo nell’opera di Hauge, come nella generalità nell'arte e la letteratura norvegesi. Un esempio ne è il dipinto “Matrimonio nel Hardanger”, diventato una sorta di icona nazionale.
Fin da bambino Hauge aveva una vera passione per la lettura: frequentando la biblioteca del paese, si faceva una idea dei libri prima di acquistarli, facendosi consigliare dal bibliotecario.
A scuola studiò l’inglese ed il tedesco, mentre il francese lo imparò da autodidatta.
Lavorò come giardiniere e fruttticoltore dopo aver frequentato corsi appositi, e nonostante le difficoltà economiche, riuscì a mettere insieme una vasta biblioteca personale che comprendeva, oltre a testi nelle lingue scandinave, anche libri in francese, inglese e tedesco. Un altro interesse di Hauge era la letteratura asiatica, in particolare la poesia classica cinese e gli haiku giapponesi.
Oltre a scrivere poesie, Hauge le traduceva dalle lingue che aveva studiato. Tradusse, fra gli altri, Hölderlin, Blake, Tennyson, Browning, Verlaine, Rimbaud, Mallarmé, Trakl, Brecht, Plath, Celan.
Per la propria poesia scelse il nynorsk, la variante del norvegese basata sui dialetti, alternativa al riskmål, la “lingua di stato”.
Hauge ebbe spesso problemi di salute e frequenti ricoveri in un ospedale psichiatrico.
Visse da solo, nella casa dei suoi genitori, fino a quando, nel 1975, all’età di 67 anni, decise di iniziare una convivenza con Bodil Cappelen.
Nel 2000 sono stati pubblicati i suoi diari, che cominciò a tenere fin dall’età di quindici anni.
NON NAVIGHIAMO SULLO STESSO MARE
Non navighiamo sullo stesso mare,
eppure così sembra.
Grossi tronchi e ferro in coperta,
sabbia e cemento nella stiva,
io resto nel profondo, io avanzo con lentezza,
a fatica nella tempesta,
urlo nella nebbia.
Tu veleggi in una barca di carta,
e il sogno sospinge l’azzurra vela,
così dolce è il vento, così delicata l’onda.
Leggi i vecchi commenti
Tu ci leggi la contrapposizione della vita dell'autore e quella di un bambino.
Forse hai ragione, io avevo pensato a quella di una donna.
E' comunque la vita di qualcuno i cui sogni sono ancora intatti, il cuore leggero, ancora pieno di fiducia e speranza.
L'autore non lo disillude, proprio nell'incipit afferma che il proprio mare non è lo stesso, che lui trasporta
"Grossi tronchi e ferro in coperta"
quindi un carico pesante nel presente (in coperta) e
"sabbia e cemento nella stiva"
qualcosa che lo appesantisce e lo lega al passato (la stiva).
E che sia proprio il passato quel profondo che ci propone subito dopo, quello in cui resta?
Concordo quindi sulla tua interpretazione della difficoltà della sua vita espressa nella metafora della navigazione e da questo punto di osservazione, quell'urlo nella nebbia si fa davvero inquietante. Per contrapposizione, trovo il verbo veleggiare molto aereo e leggero, molto più positivo rispetto al comune navigare che già da solo ci rende l'immagine maestosa di una grande (ed improba) impresa.
Grazie per il tuo spunto di riflessione.
Forse hai ragione, io avevo pensato a quella di una donna.
E' comunque la vita di qualcuno i cui sogni sono ancora intatti, il cuore leggero, ancora pieno di fiducia e speranza.
L'autore non lo disillude, proprio nell'incipit afferma che il proprio mare non è lo stesso, che lui trasporta
"Grossi tronchi e ferro in coperta"
quindi un carico pesante nel presente (in coperta) e
"sabbia e cemento nella stiva"
qualcosa che lo appesantisce e lo lega al passato (la stiva).
E che sia proprio il passato quel profondo che ci propone subito dopo, quello in cui resta?
Concordo quindi sulla tua interpretazione della difficoltà della sua vita espressa nella metafora della navigazione e da questo punto di osservazione, quell'urlo nella nebbia si fa davvero inquietante. Per contrapposizione, trovo il verbo veleggiare molto aereo e leggero, molto più positivo rispetto al comune navigare che già da solo ci rende l'immagine maestosa di una grande (ed improba) impresa.
Grazie per il tuo spunto di riflessione.
NATACARLA |
GRAZIE a te Carla!
Molto bella la tua riflessione, mi piace tanto la distinzione che hai colto tra coperta e stiva, tra presente e passato!
Giuseppe
Molto bella la tua riflessione, mi piace tanto la distinzione che hai colto tra coperta e stiva, tra presente e passato!
Giuseppe
utente anonimo |
Giuseppe